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Lui & Lei

La ragazza troppo bella - Parte 8


di Blacknoble
29.01.2022    |    2.770    |    0 9.0
"Era completamente nudo, rosso in viso, ansimava..."
L'uomo era immobilizzato sotto di me. La parete di fronte era un unico specchio che copriva il soffitto della stanza. Era completamente nudo, rosso in viso, ansimava. Goccia dopo goccia, la cera della candela accesa che tenevo in mano lambiva la pelle del suo basso ventre. Il suo torso era ricoperto di cera che solidificandosi aveva fatto una crosta del colore stesso della candela: rossa. L'unica luce che c'era nella stanza era quella delle candele accese. Avevo tagliato i cappelli, il che faceva risaltare il mio lungo collo ed il mio mento deciso. Portavo dei stivali di pelle che arrivavano sopra il ginocchio. Un tanga minuscolo, e sopra un corsetto sempre di pelle nera. Un maschera nera accentuava l'aspetto che mi proponevo di avere.
La candela stava finendo. Mi alzai ed andai a versarmi da bere. C'era un secchio con una bottiglia di spumante sul tavolo. Bevvi e poi versai il resto dello spumante in bocca all'uomo che rischiò di affogare. Seduta sul lato del letto, guardai l'uomo ed il mio sguardo scese verso il suo basso ventre. Il suo sesso era chiuso in una piccola gabbietta metallica. Era difforme, violaceo. Ero certa che dolesse tanto. Non capivo quella ricerca del dolore per arrivare al piacere. Il piacere che diventa dolore, che ti invade e diventa insopportabile, il piacere che è frustra, che è dominazione, che è equilibrio, che è tutto. Il dolore è una scorciatoia. Una grande scorciatoia per approdare al piacere. Ma si sa, noi umani, siamo cosi diversi...
Slegai l'uomo e gli permisi di sedersi a terra, affianco a me. Gli misi una mano sulla testa e gli accarezzai distrattamente i cappelli mentre bevevo altro spumante. L'uomo aveva un plug in culo. Glielo avevo infilato io. Il più grande che avevo. Allungai il tacco verso il suo pene che cominciai a schiacciare. Gli piacque. Continuai per qualche minuto e poi mi venne voglia. Scartai leggermente le mutande e gli dissi "lecca". Il che fece subito. I peli della sua barba mi solleticavano l'interno delle cosce mentre la ruvida lingua cercava di intraprendere un dialogo intimo con la mia vagina. Era bravo, diligente, e dopo un paio di minuti, gli venni in bocca mentre stringevo le gambe in una stretta mortale. Fini di leccare i miei umori pulendomi la fica e tornò a sedersi laddove stava prima. Sorrisi nel vedere il suo cazzo imprigionato viscoso di sperma. Aveva goduto ancora. Stavo per dirgli qualcosa quando si senti il suono di un cellulare. Era il cellulare di Alberto. Ovviamente, in quanto comandante, aveva l'obbligo di essere reperibile sempre...
Alberto se ne andò lasciandomi li. Erano passati sei mesi dalla mia avventura con Elena. Alberto mi aveva cercata per sapere come stessi, ed aveva cambiato le sue mire. Nel frattempo, anch'io ero profondamente cambiata. Napoli è una città di cuore, dove crescere vuol dire coltivare la compassione. Persi parte della mia educazione dinnanzi alla realtà della vita. Ciò che mi era capitato mi aveva profondamente afflitta. Chi mi avrebbe cercata? Una domanda che mi feci a lungo alimentando il rancore nei confronti dei miei genitori specialmente e della mia famiglia in genere. Non avevano accettato la mia scelta di vita in base alla loro vita. Un atteggiamento egoistico ed ignorante. Dopo quegli anni e quel nefaste evento che mi capitò, persi la speranza di ricucire, anzi, cominciai a provare rabbia. E quella rabbia mi rese un altra persona. Educata, ma distante. Io che non avevo mai fatto uso di una frustra in mia vita, mi ritrovai amante del dolore inflitto. Forse per quello ricevuto, non saprei, solo è che diventai cosi. Con tutto il mio bagaglio precedente, con uno in più. Forse non sarei arrivata nemmeno a questo se non fossi stata chiamata dal portiere di Elena che aveva il mio numero di cellulare. Glielo diedi io una volta che accompagnai Elena a casa dopo un breve soggiorno in ospedale per un intervento benigno. Non si sa mai. Risultò utile. Lui mi chiamò perché non sapeva dove mettere la roba di Elena. L'appartamento doveva essere liberato. Mi misi d'accordo con lui che organizzò il tutto. Feci andare i mobili nella casa che era ancora mia dove viveva mio fratello, ed il suo guardaroba da me. Fui davvero sorpresa di quanta roba ci fosse. Dai vestiti costosi a quelli particolari... C'erano almeno un centinaio di frustra, altrettanto plug di cui alcuni in avorio, vestiti di pelle di tutti i generi e gusti, scarpe di tutti i gusti, vibratori di tutte le dimensioni, aggeggi di cui non capivo l'utilità ma indovinavo che servissero nel contesto sessuale. Ero incuriosita da tutta questa roba. La sera, davanti allo specchio, spesso mi vestito di pelle, prendevo la frustra in mano, mi masturbavo. Provai pure le manette ed andai in panico quando per un momento non riuscì ad aprirle. Successe per caso il momento giusto. Alberto mi chiamava sempre più spesso. Non mi interessava per niente. Non aveva soldi, non poteva cambiare il mio destino. Ma un giorno che mi chiamò fece delle allusioni su manette e cose del genere. Furbamente, nei giorni seguenti, lo spinsi a parlare. Cosi seppi che lui era un "slave". Un termine brutto considerandone il significato nel passato, ma quasi corrispondente alla realta dei fatti. Lo schiavo ha la vita dedita al suo padrone, ma tutta la vita. Invece, qui, era in un contesto ben preciso, limitato nel tempo e nello spazio. Gli schiavi vogliono contare attraverso qualcun'altra. Generalmente, le loro posizioni ed i loro statuti sociali non gli permettono di compensare le emozioni. La vita è una perfetta bilancia di tutto. Il si, ed il no vanno di pari. L'adorazione va di pari con l'umiliazione. Alberto era un uomo a cui si diceva sempre si, che dava ordini a centinaia di persone, uno a cui non si rifiutava un posto in un ristorante affollato. Aveva potere, meno soldi, ma lo facevano contare costano che lui aveva bisogno di ridimensionarsi. Attraverso 'umiliazione, la dedizione totale, il dolore. Me lo aveva confessato. E ciò i aveva eccitato. Passai sere e sere a guardare su YouTube delle sedute di "dressage", di BDSM, guardai il modo in cui tenere la frustra, dove colpire, ascoltai psicologi che spiegavano quel desiderio di dolore, vidi gente spiegare la necessita del BDSM, associarlo alla nostra natura stessa. Dicevano che era il odo piu sano di esercitare e subire violenza senza cambiare il mondo. Accusavano gli altri di andare in guerra, di essere violenti per le strade, solo per il fatto di reprimere la propria violenza per via degli usi, delle culture. Comunque, benché non fossi totalmente d'accordo con loro, mi studiai parecchi particolari della dominazione. E poi, incontrai Alberto...
Il tassi mi venne a prendere e mi portò a Pomezia. Dovevo vedere Anna. Di tanto in tanto ci sentivamo e ci vedevamo. Anna era rimasta la ragazza semplice di anni fa. Purtroppo, si era lasciata col fidanzata e la maggior parte dei suoi discorsi riguardava l'età che avanzava e la necessità di trovare marito per fare famiglia. Non era molto bella. Ma pur se lo fosse, ho i miei dubbi che sarebbe entrata nel mio mondo. All'inizio, mi incoraggiava lei ad uscire con quegli uomini facoltosi con le macchine di cui sapeva tutto. "Questa macchina costa oltre centomila euro senza opzioni, e sono sicura ci sarà tutto dentro" cosi parlava quando mi venivano a prendere dinnanzi a lei. Non era invidiosa, solo curiosa.
Parlammo raccontandoci per un paio di ore gli ultimi eventi delle nostre vite. Anna sapeva di ciò che mi era successo ed era stata malissimo per me. Aveva pianto per giorni e giorni. Poi mi messaggiava ogni minuto per chiedermi se avessi bisogno di qualcosa. "Anche una spalla". Ci asciammo piene di quella sostanza che solo il bene puro riesce a lasciarti quando incontri una persona cara e vera.
Arrivai a casa e mi feci una lunga doccia. Poi mangiai qualcosa e mi misi sul computer. Mio fratello che viveva nella mia casa a Roma mi aveva mandato una lunga lettera. "Cara sorella. Che tu non abbia rispetto per niente e nessuno lo sapevamo già. Ma che tu ti possa permettere di mandare degli operai dove vivo senza manco avvertirmi lo ritengo davvero una grande bastardata. Ma come ti permetti? Sei proprio una grande zoccola... eccetera...". La mail era scritta in napoletano ma il succo è questo. Forse, se non mi fosse capitato di essere violentata e di aver rischiato la morte, avrei fatto come sempre. Avrei sospirato, e lasciato stare. Ma l'ho detto. In me, qualcosa era cambiato. E la rabbia mi assali. Senza pensarci su, chiamai Luigi mentre mi stavo vestendo. Mi rispose e mi promise che sarebbe stato giu al palazzo in un quarto d'ora. Siccome aveva la macchina, saremo andati insieme. "Devo andare a casa di mio fratello" gli avevo detto.
Avevo le chiavi. Luigi in macchina dalla mia espressione corrucciata e dal mio silenzio aveva capito che qualcosa non andava. Non incalzò. Mi segui nella casa che apri dopo piu tentativi tacente ero nervosa. Mio fratello era in soggiorno con altre due persone. Due ragazzi, giovani quanto lui. Stavano giocando a playstation. Sul tavolo, c'erano diverse bottiglie di birra e stavano fumando marijuana. Incredibilmente, mio fratello appena mi vide fece "Eccola qua la zoccola". I suoi due amici risero. Erano ubriachi e drogati. La prima cosa che feci fu di andare verso il televisore. Usando tutte le due braccia, lo afferrai e lo staccai violentemente dal supporto e braccio prima di scaraventarlo a terra urlando "Questo è mio!". Mio fratello fece per avventarsi su di me ma Luigi si mise in mezzo e lo bloccò. Fortunatamente, mio fratello non era un ercole, e cominciò ad insultarmi ed a gridare mentre placidamente andavo a svuotare il frigo, le mensole della cucina, il guardaroba. Portai tutte le cose sue nel soggiorno nel giro di mezz'ora mentre stava ancora urlandomi parolacce di tutti i tipi. Qualche minuto dopo, la polizia bussò alla porta. Gli amici di mio fratello fecero sparire delle bustine di erba sul tavolo ed i mozziconi delle canne ed immediatamente se ne andarono. Mio fratello si precipitò verso di loro tentando si spiegare che sua sorella era una strega ed una zoccola. I poliziotti lo calmarono e chiesero di ascoltare le diverse voci. La casa era al mio nome. Mio fratello nemmeno aveva la residenza. I poliziotti lo pregarono di andarsene. Lui mi guardò "Ma veramente stai facendo?". Si era calmato, aveva compreso di non essere più in posizione di forza. Non mi fregava assolutamente della riconoscenza, ma del rispetto si. Non ne aveva per me cosi come gli uomini che mi avevano rapito e violentata non ne avevano. Mio fratello face e disse le cose più cattive che potesse in quel momento. Chiamò mia madre in vivavoce e non fecero altro che insultarmi a vicenda. I poliziotti erano ad aspettare che se ne andasse. Mio fratello raccoglieva le sue cose una alla volta con una lentezza esasperante. Ad un certo punto fece per andare ad aiutarlo ma i poliziotti mi fermarono. Pensai a prendere le chiavi che erano attaccate dietro la porta e feci mente locale per ricordare se ce ne fossero altre. No. Erano chiavi particolari, cifrate, impossibili da riprodurre. E poi, avrei parlato col portiere e cambiato la combinazione dell'allarme. Mio fratello finalmente se ne andò, i poliziotti seguirono a ruota, e rimanemmo solo io e Luigi. Luigi, guardando il televisore a terra disse: "Peccato". Lo guardai, e mi misi a piangere. Quando scendemmo, mio fratello era per strada. Aspettava me. Aveva cambiato atteggiamento. Era disperato. Non sapeva dove andare. Il mio supporto per lui era indispensabile, altrimenti, non so cosa ne come avrebbe fatto. Tra la casa ed i soldi delle bollette, aveva poche spese e poteva vivere una vita decente. Ora non più. Lo aveva dato per scontato, aveva abusato. La mia non era una punizione, tantomeno giustizia, semplicemente, era logica e normalità, forse, per il cinismo in più. Mio fratello mi pregò di perdonargli. Per la prima volta, lo senti profondersi in scuse. Non erano sincere, erano dettate dalla disperazione. Ma ci sono confini una volta superate non si torna indietro. Mentre mi implorava seguendoci fino alla macchina, misi la mano nella borsa e presi qualche banconote da cento che mi fermai a dargli senza una parola. Fece un altro errore. Me li buttò in faccia e mi sputò in faccia. Gli raccolsi mentre mi insultava e tentava di avventarsi su di me. Fortunatamente c'era Luigi. Piansi tutta la sera a casa mia.
La netta separazione dalla mia famiglia era ora definitiva. Non avevo piu vincoli. Erano sfumati del tutto. Ero amareggiata, e sola. Decisi di cominciare ad affittare l'appartamento. Le mie doti organizzative, le notai in quel momento. Nel giro di un mese, quattro stupende donne vivevano nel mio appartamento vuoto. Erano dello stesso mondo che frequentavo. Ma un livello più in basso. Le si vedeva di tanto in tanto ad una festa, avrebbero dato la loro anima al diavolo per essere frequentatrici di quel mondo. Cercavano, e non si facevano cercare. Due di loro erano anche abbastanza belle, ma la loro brama di diventare ricche era cosi evidente da renderle volgari. Ebbi un idea geniale. Mi serviva un al Elena per mostrare loro come comportarsi. A pro di che? mi chiesi poi. La risposta arrivò quando incontrai un amante di una certa età che mi confidò di voler organizzare una cosa con due suoi amici in una sua tenuta in toscana. Cosi, dieci giorni dopo, io e le quattro ragazze eravamo in Toscana. E poi, andammo a Napoli, poi in Francia, poi in Svizzera, in Germania, a Londra. Le ragazze divennero otto, poi dieci, poi quindi nel giro di un anno e mezzo. Guadagnavo in ogni aspetto nelle loro vite. Ero riuscita ad entrare in un giro dove i soldi erano facili, quel giro a cui ambivano, e giustamente, ne approfittavo.
In Toscana, arrivammo con due diverse macchine. Gli uomini che ci aspettavamo erano grandi quanto il mio amante. più o meno sui sessanta. Le ragazze li travolsero. Si erano preparati con Cialis e viagra, ma nemmeno la coca e lo champagne erano sufficienti per reggere le ragazze. Avevamo fatto insieme un corso di massaggio voeloce. Volevo che coprissero ogni centimetro di pelle di piacere, li portai a considerare non solo l'aspetto fisico ma anche quello visivo. Spettacolo ed Eros. Io non partecipai. Guardai, imparai, osservai, essi la magia di quei corpi annodati, sudati, osservai peni e vagine, espressioni e visi, senti i rumori del piacere attraverso la frustra, del gemito della goduria. Fu la prima volta. Non l'ultima. Mi galvanizzò molto, e mi diede idee. Mi piaceva la cosa fatta, la bolgia fatta di piaceri. Mi piaceva la dominazione, non solo sui corpi, ma sulle menti. È delicata, è un scavalcare e godere emozioni altrui, vivere sogni non suoi. Non sapevo di avere una tale mente. Cominciai ad istruire le ragazze sull'erotismo. Non volevo che fossero donne che offrivano i loro corpi senza consapevolezza. Le obbligai a seguire dei corsi di yoga, di massaggio erotico. Io stessa insegnai loro a camminare sui tacchi, a muovere il bacino in modo sensuale, misi a disposizione il guardaroba infinito di Elena e pretesi che imparassero litaniano. Anche le ragazze italiane non lo parlavano a perfezione. Perlopiù, dialetto. C'era una napoletana tra di loro. Non volli gare con lei per via dell'origine, ma lei era una donna che sapeva da dove veniva, e dove voleva andare. Cinzia diventò il mio braccio destro Le spiegai la mia idea del piacere da procurare. Lei era una donna dura, cresciuta tra i camorristi, era impietosa. Obbligò le ragazze con le minacce a seguire esattamente i nostri ordini. Nel giro di un anno, tutti i giorni, e dico tutti i giorni, le ragazze lavoravano. Erano diventate esperte nell'arte del procurare sesso, e pertanto, indispensabili. In quanto ai soldi, non sapevo piu che farne. Ne entravano cosi tanti ed in cosi poco tempo che non sapevo cosa farne. Dei miei amanti, non era rimasto quasi nessuno. L'organizzazione del mio gruppo mi portava via tanto tempo. Ero il centro di tutto. La mia rete comprendeva politici, poliziotti, carabinieri, imprenditori, nobili. Ero diventata colei a cui si rivolgevano quando erano in cerca di ragazze presentabili per le loro feste, o in cerca di emozioni diverse. L'arte del sesso, un arte che imponevo al mio gruppo di ragazze. Qualcuna di loro era andata via, generalmente da me o da Cinzia. Cinzia mi spinse ad aprire un centro di relax e benessere, il che feci. Lo scegliemmo alle porte di Roma, in un vecchio casale che comprai e feci ristrutturare del tutto. Era immenso e bellissimo, ma sopratutto discreto. Vi lavoravano in modo fisso venti ragazze. Stavo costruendo un impero a soli ventisei anni, ed il mio cinismo aumentava.
Una ragazza nera, molto in gamba lo dirigeva. Fu la prima a chiamarmi "Boss Lady". E da li, quel nome rimase, e fu il preludio ad una carriera criminale.
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